STORIA DELL'EMIGRAZIONE VENETA



La data di riferimento cruciale di questa grande emorragia di gente è il 1876 quando il tasso di emigrazione passa dal 7,4 per mille a punte del 40 per mille negli anni 1888 e 1891. Specificatamente dal solo distretto di hCastelfranco Veneto tra il 1884 e il 1900 emigrano 10.671 persone pari al 312 per mille della popolazione censita nel 1881. Prima dell’ unione del Veneto all’ Italia nel 1861 e fino al 1876 c’erano dei tradizionali piccoli flussi migratori specialmente dalle zone montane e pedemontane a ridosso del confine verso l’Impero austro ungarico e la Germania. Dopo il 1861 a causa dell’ incremento notevole della popolazione, di un’ agricoltura ancora condotta con metodi arcaici frazionata in piccolissime proprietà ( 1 ettaro in media per famiglia), dell’andamento sfavorevole delle condizioni climatiche e di conseguenza delle produzioni, del carico insopportabile degli affitti e delle tasse che non lasciavano scampo che determinarono miseria, fame e malattie, la situazione si fece tragica e l’unica via d’uscita era l’emigrazione verso il Brasile e l’Argentina che in quegli anni richiedevano manodopera per i quali, agenti spregiudicati delle compagnie di navigazione percorrevano i paesi e le campagne, promettendo molte volte falsamente innumerevoli benefici che poi colà si rivelarono tremende privazioni e sacrifici.A quel tempo la popolazione agricola era suddivisa in due categorie:” i pisnenti “ ossia braccianti che non disponevano di terra in proprietà ed avevano appena una casupola o spesse volte un tugurio per abitare e vivevano del lavoro saltuario delle loro braccia, parte dell’ anno disoccupati, e che per sopravvivere erano costretti a qualunque cosa compreso l’elemosina e il furto.
Gli altri erano “ i massariotti” proprietari di piccoli appezzamenti di terra che non bastando alla sopravvivenza della numerosa famiglia, prendevano in affitto o mezzadria alcuni campi dai pochi grossi proprietari di terre che disponevano di centinaia di ettari, ai quali nell’ anno oltre a corrispondere l’affitto o parte del raccolto a mezzadria (50 per cento), avevano a loro carico la semente, la concimazione , la fornitura di una certa quantità di animali da cortile , ore di lavoro gratuite e le tasse, per cui a loro rimaneva ben poco. Perseguitati dalla fame e da diverse malattie dovute alla mancanza di igiene: il tifo per l’uso alimentare dell’ acqua dei fossi o di pozzi poco profondi, la tubercolosi dovuta alla cattiva alimentazione e alla promiscuità con gli animali nella stalla durante i filò, il colera la cui ultima epidemia fu nel 1886, e per completare il fosco quadro la pellagra causata dall’ eccessiva alimentazione di polenta spesso avariata, che attaccava principalmente i giovani maschi e portava la persona ad una debilitazione fisica e nei casi gravi anche all’alienazione mentale con deliri che si concludevano spesso con il suicidio. La mortalità infantile arrivava anche al 50 per cento dovuta principalmente al morbillo,al vaiolo, alla difterite ed alla mancanza di farmaci adeguati per combattere queste malattie e la maggior parte dei pazienti a causa della miseria, non era in grado di pagare le prestazioni del medico che spesso era ricompensato in natura. Per di più in quegli anni ci fu un accanimento delle cattive condizioni meteorologiche che falcidiarono i raccolti,l’oidio e la peronospora decimavano le viti, invasioni di insetti nocivi quali la pirolide e la filossera e l’atrofia dei bachi da seta, unica fonte di guadagno contante per la famiglia.
Si aggiunta che il frumento il prodotto più pregiato, oltre che alla mezzadria era soggetto all’ odiosa tassa sul macinato che il mugnaio doveva riscuotere direttamente o in contanti o con parte del frumento, per cui alla famiglia contadina non restava che mangiare polenta tre volte al giorno. Per finire in quegli anni i prezzi dei prodotti agricoli ebbero un calo a causa della concorrenza di prodotti similari importanti dalle Americhe e dalla Russia con le nuovi grandi navi a vapore e solo nel 1892 per arginare questo pericolo furono introdotte barriere protezionistiche. Nel frattempo però molti piccoli proprietari furono costretti da tutte queste concause a vendere le loro piccole proprietà e tale disastrosa situazione determinò un aumento di gente che non sapendo come sbarcare il lunario non essendoci ancora attività industriali che potesse assorbirla, si diede al vagabondaggio, all’ elemosia, all’ alcool, anche alla vana ribellione, per cui l’emigrazione era per tutti costoro una speranza di sopravvivenza.
Intere famiglie attratti anche dalle promesse a volte false degli agenti delle Compagnie di Navigazione, vendevano quel poco che avevano per pagarsi il viaggio e non fare più ritorno.La provincia di Treviso che a quel tempo faceva circa 400.000 persone ne perse in pochi anni 150.000, nell’ Opitergino si arrivò a metà delle famiglie, alcuni comuni del Montello si svuotarono completamente.
Durante la traversata che durava più di un mese erano stipati in promiscuità come il bestiame e spesso dovevano dormire sui ponti delle navi sotto le stelle. All’ arrivo nei porti di Rio o Santos li attendeva una sosta ammassati nella Hospedaria de immigrantes, in attesa della destinazioni finali che potevano essere le grandi fazendas del caffè o canna da zucchero nello Stato di San Paolo spesse volte a sostituire come braccianti gli schiavi neri da poco liberati che non intendevano più lavorare o le terre vergini degli stati del Sud Brasile, il Rio Grande do Sul, Santa Catarina e Paranà dove venivano loro assegnati degli appezzamenti di terra in proprietà . La maggioranza degli emigrati veneti scelse il Sud del Brasile con il miraggio di avere finalmente un pezzo di terra che però dovettero materialmente strappare alla foresta con incredibili sacrifici,ricoverati in alloggi di fortuna e per sostentamento solo miseri pasti di riso e fagioli passati dal Governo, la caccia la pesca e le pigne delle grandi araucarie che coprivano quei luoghi finora selvaggi, perseguitati da insetti e zanzare che portavano la mortale febbre gialla. Pur di realizzare il loro sogno lavorarono duro, fondarono nuovi paesi che per ricordo chiamarono Nova Padova, Nova Bassano, Nova Venezia, Nova Vicenza, Nova Treviso mantenendo il dialetto,le tradizioni e le canzoni della terra veneta che avevano lasciato. Dopo anni il loro sacrificio ed il loro lavoro hanno dato i loro frutti ed il sud-est del Brasile con le molteplici imprese nell’agricoltura e nell’ industria è attualmente la regioni più dinamica e ricca del grande paese e se pur ben integrati, mantengono con orgoglio il ricordo delle origini. Evidentemente buon sangue non mente. Contemporaneamente all’ emigrazione in Brasile, altri veneti emigrarono in Argentina in particolare a Buenos Aires, Rosario, Santa Fè dove con gli anni si integrarono bene sia dal punto di vista economico che culturale.
L’emigrazione verso il Sud America rallentò alla fine del 1800 quando a cavallo del secolo si aprì l’emigrazione verso gli Stati uniti e il Canada dove si riversò sia pure in minor misura,il flusso migratorio che si fermò all’ inizio della prima guerra mondiale quando parecchi ritornarono per partecipare “ patriotticamente “ alla grande guerra avendo il Governo Italiano fatto promesse di distribuzione di terre ai combattenti.
àdegli Stati Uniti compilavano all’ arrivo degli emigranti al porto di New York punto di arrivo e poi di partenza per l’interno degli Stati Uniti e Canada. E’ da rilevare la rigorosità con la quale sin dai primi anni del 900 le autorità americane prendevano nota dei dati personali di ciascun emigrante: Cognome, Nome, Luogo di provenienza, luogo di destino, stato di salute, capacità di lavoro,grado di istruzione, denaro posseduto etc.tanto che a distanza di un secolo possiamo consultare questi elenchi.

(bibliografia "Qua bisogna andar via" di Giacinto Cecchetto)


LISTA IMMIGRATI SBARCATI A NEW YORK NEL MARZO 1903:




L’incredibile storia di Giovanni Dalla Costa da Pederobba,
cercatore d’oro in Alaska.
La storia di Giovanni dalla Costa e della sua famiglia da Pederobba –Treviso, è il ritratto crudo della società veneta rurale dopo l’unione del Veneto all’ Italia ma anche la storia di molti Veneti che costretti ad emigrare con tenacia e determinazione riuscirono però a riscattarsi da quella situazione di miseria. Era nato nel 1868 da una famiglia contadina che pur lavorando in affitto alcuni terreni ai piedi del Monfenera non se la passava proprio male come purtroppo altri della zona. Ma all’improvviso una notte d’autunno, un devastante incendio distrusse la loro casa ed il raccolto accumulato, lasciandoli sul lastrico. Cercarono aiuti dal Governo, dalla banca, da altri ma non ne ebbero e privi dei mezzi per sopravvivere, mancando il loco il lavoro, furono costretti ad emigrare. Per primo nel 1886 partì Giovanni per la Francia dove trovò lavoro in una miniera e poter così mandare qualcosa alla famiglia. Ma non soddisfatto pensò di emigrare negli Stati Uniti dove non mancavano lavoro ed opportunità di fare fortuna. Si imbarcò a Le Havre, sbarcò a New York e con i primi treni costa a costa si diresse in California dove aveva sentito si cercava e trovava l’oro. Ma a San Francisco la corsa all’ oro individuale cominciata 20 anni prima era già terminata per cui dovette riprendere il lavoro di minatore salariato in una miniera industriale del Montana. Arrivavano però voci che in Alaska era iniziata una nuova corsa all’ oro ed il nostro Jack, così lo chiamavano, deciso a trovare la sua fortuna, si imbarcò per quella terra a quel tempo sconosciuta e coperta di ghiacci per buona parte dell’ anno. Sbarcato, si addentrò a piedi, a cavallo , in canoa in quella terra selvaggia con altri avventurieri animati tutti dal miraggio dell’ oro. In particolare strinse fraterna amicizia con Felice Pedroni (Felix Pedro) un modenese di Fanano che già aveva fatto quel tipo di esperienza mentre nel frattempo li raggiunse anche l’altro fratello Francesco. Per alcuni anni risalirono fiumi, attraversarono con le slitte foreste e montagne innevate alla temperatura media di 30-35 sotto zero con punte di 45-50 quando anche i cani da slitta morivano assiderati, tormentati dai lupi, mangiando scatolame, carne secca e fagioli, dormendo nelle tende o in baracche di fortuna col rischio di morire congelati mentre nella breve estate erano assaliti continuamente da nugoli di zanzare. Di quando in quando si fermavano per esplorare il terreno che per essere scavato doveva prima essere scongelato con grandi fuochi. Avevano imparato dagli indiani a lavorare lentamente per non sudare altrimenti la pelle bagnata si sarebbe subito congelata. Finalmente dopo quasi due anni arrivò il giorno fortunato ed in un posto lungo il fiume Yukon la loro tenacia fu premiata : Pedro e Co. trovarono l’oro in gran quantità. In quella località che è ora una città chiamata Fairbanks un busto ed una targa ricordano Pedroni e quella data il 9 aprile 1903. Divenuto in poco tempo ricco Jack ( Giovanni) decise di tornare in Italia ma a San Francisco fu in circostanze oscure derubato del suo oro e dovette ritornare in Alaska a scavare nuovamente e per di più preso in giro dagli altri. Nel giro di un anno era nuovamente straricco e questa volta partì direttamente con destinazione Pederobba. Quando vi giunse nel 1905 dopo quasi 20 anni nessuno credeva alla sua storia ma quando cominciò a comperare case e terreni e depositare in banca monete d’oro ,tutti si convinsero e lo considerarono il loro campione. Nel frattempo però la sua famiglia si era dissolta. Stremati dai debiti che non riuscivano a pagare, il fratello Giacomo andò a lavorare nel sud della Francia dove si accasò con una francese e perse tracce dei fratelli, mentre il padre Luigi , la madre Teresa , l’altro fratello Gaspare ed una sorella, venduto quel poco che avevano, emigrarono con il viaggio pagato a Montevideo in Uruguay per poi passare nel vicino Rio Grande do Sul in Brasile dove misteriosamente scomparve la sorella e tra difficoltà , ma con tenacia aiutati più tardi anche da Giovanni, impiantarono una locanda a Guaporé. Giovanni dalla Costa intanto a Pederobba era stato raggiunto anche dal fratello Francesco ed entrambi decisero dopo tanto peregrinare di mettere su famiglia. Giovanni conquistò e sposò Rosa Rostolis che portò in un favoloso viaggio di nozze a ripercorrere le sue tappe americane non più in tenda ma in alberghi di lusso, sino a Fairbanks in Alaska. Dal matrimonio ebbe un figlio Francesco e 4 figlie e a Pederobba si occupò prevalentemente dell’ amministrazione dei suoi beni e della coltivazione dei terreni, non mancando però di aiutare chi aveva bisogno e di godere dell’ amicizia dei paesani. Pure Francesco si sposò con Maria Poleselli ritornò in Alaska con lei, ebbe diverse figlie ed iniziò una redditizia attività edile che lo portò a trasferirsi prima a Roma poi in Toscana. Ma la tranquilla vita di Giovanni stava per essere nuovamente sconvolta dallo scoppio della prima guerra mondiale. Dopo la ritirata di Caporetto, il fronte si era assestato sulla linea Grappa, Piave e Pederobba era al centro. In fretta e furia il paese fu evacuato e la famiglia di Giovanni, portando il minimo indispensabile fu profuga per più di un anno a Pavia dove un’ altra disgrazia li colpì con la morte per l’epidemia di spagnola della figlia Resi. Al ritorno trovarono solo desolazione. La casa era sventrata , il mobilio rubato o distrutto, una cassa contenente cose personali e di valore nascosta nel terreno in giardino era stata scoperta e ripulita, le monete d’oro depositate presso la Banca di Valdobbiadene erano state sequestrate dagli austriaci. Così Giovanni si ritrovò nuovamente a zero e né governo né le banche erano disposti ad aiutarlo. In più dopo la guerra i prezzi di tutti i beni e generi erano triplicati e con i pochi soldi rimasti aveva appena per sopravvivere. Ma la tenacia di Giovanni non lo abbandonò, si diede da fare per rimediare a quella situazione pur tra mille difficoltà e ci riuscì ma i bei giorni passati erano ormai un sogno. Dopo 10 anni trascorsi tranquilli mentre i figli crescevano e Giovanni stimato e amato da tutti era diventato un saggio patriarca, purtroppo il primo giugno del 1929 colpito da un improvviso arresto cardiaco, all’ età ancor giovane di 60 anni morì. La prematura mancanza di Giovanni lasciò la famiglia in gravi difficoltà. A causa della grave crisi del 1929, la moglie Rosa fu costretta a vendere quello che era rimasto terreni e pure la casa, ma ebbe anche la soddisfazione prima di morire nel 1955 di vedere i suoi figlioli ben sposati e Francesco rifarsi una solida posizione. A ricordo di questa incredibile storia, nel cimitero di Pederobba c’è una lapide funebre dove sta scritto: ”Giovanni dalla Costa umile mite buono, lavoratore tenace ad ardue imprese nella gelida inesplorata Alasha diede gli anni suoi migliori, alla famiglia poi dedicò tutto se stesso, fine immatura lo colse lasciando nel dolore i suoi cari ,nel mesto compianto tutti i buoni”. Un bell’ esempio da ammirare e tenere sempre presente.
Questo riassunto è stato tratto dal bel libro di Dario de Bortoli “ Jack Costa- L’epopea di Giovanni dalla Costa, il Trevisano che cercò l’oro in Alaska e lo trovò”
Editore. Franco Angeli - www. francoangeli.it


Lo scavo fortunato


Giovanni e la sua famiglia a Pederobba

Tra le due guerre verso il 1930, l’emigrazione verso le Americhe quasi si fermò a causa della grande recessione americana e alla riduzione dei permessi d’ingresso,contemporaneamente alla politica antiemigratoria del Fascismo che preferiva impiegare in Patria la forza italiana ed i ridotti flussi migratori si rivolsero principalmente verso la Francia e la Svizzera con impieghi non meno pesanti nell’ agricoltura e nelle miniere e fonderie di ferro, nel Belgio nelle miniere di carbone, pochi Oltreoceano Australia compresa. Nel secondo dopoguerra dal 1945 fino alla metà degli anni 1960 la grave crisi economica dovuta alla guerra e alla sconfitta quando mancava perfino il cibo, spinse ancora una volta milioni di Italiani ad emigrare ed anche dal Veneto molti partirono alla volta della Svizzera, Belgio, Francia, Germania con contratti stagionali ed oltreoceano Argentina, Uruguai, Venezuela, Stati Uniti, Canada, Australia,Sud Africa, dove la maggior parte si fermarono e si può ben dire che tutte le parti del mondo hanno visto e vedono attualmente la presenza dei veneti che, lavorando duramente e rettamente senza aver ricevuto nulla gratuitamente, hanno in genere conquistato un’ integrazione sociale ed economica ottima, raggiungendo anche posti di prestigio.


"Gli emigranti" di Noè Bordignon (1841-1920)


A ricordo di quei tempi ci rimangono delle filastrocche e canzoni che nella loro semplicità ci ricordano le vicissitudini, i sacrifici e lo stato d’animo struggente di tutti coloro che per avere un lavoro furono costretti ad abbandonare la propria casa ed il paese.

Filastrocca popolare

“ Co San Marco comandava
se disnava e se senava.
Soto Franza, brava xente,
se disnava solamente.
Soto casa de Lorena ( Austria)
no se disna e no se sena.
Soto Casa de Savoja
de magnare te ga a voja “

Poesia del veronese Berto Barbarani.

I va in Merica

Fulminadi da un fraco de tempesta,
l’erba dei pré par ‘na metà passìa,
brusà le vigne da la malatia
che no lassa i vilani mai de pèsta;

ipotecando tuto quel che resta,
col formento che val ‘na carestia,
ogni paese el ga a so agonìa
e le fameje un pelagroso a testa.

Crepà la vaca che daséa el formajo,
morta la dona a partor ‘na fiola,
protestà le cambiale dal notaio,

una festa, serradi a l’ostaria,
con un gran pugno batù sora la tola:
“ Porca Italia” i bastiema: “ andemo via ! “

E i se conta in fra tuti, in quanti sio?
Apena diese, che pol far strapasso;
el resto done co i putini in brasso,
el resto, veci e puteleti a drio.

Ma a star qua, no se magna no, par dio,
bisognarà pur farlo sto gran passo,
se l’inverno el ne capita col giasso,
pori nualtri, el ghe ne fa un desìo!

Dentro l’Otobre, carghi de fagoti,
dopo aver dito mal de tuti i siori,
dopo aver fusilà tri quatro goti,

co la testa sbarlota imbriagada,
i se da du struconi in tra de lori,
e tontonando i ciapa su la strada.

Canzoni d’emigrazione friulane

Al Cjante il Gial

Al cjante il gial
Al criche il dì

Mandì ninine
Mi tocje partì.

L’E’ Ben Ver Che Mi Slontani

L’è ben ver che mi slontani
dal pais ma no dal cur,
sta pur salde tu,ninine
che Jò torni se no mur.
Montagnutis ribassaisi,
fait un fregul di splendor,
che ti viodi àncje une volte,
bambinute dal Signor.

L’Emigrant

Un dolor dal cur mi ven
dut jò devi abandonà
pari a mame e ogni ben
e pal mont mi toce là.
Za jò viot lis lagrimutis
di chel agnul a spontà
e a spontà
e bussànt li sos manutis
Jò i dis “ Mi toce là”

O Mamma Mia Dammi Cento Lire

O mamma mia dammi cento lire
E che in America volio andar.

E cento lire io te le do
Ma in America no poi no.

I suoi fratelli da la finestra
O mamma mia làsela andar.

Làsela andar che l’è tanto bela
Che el Re di Spagna la vol sposar.

Quando l’è stato in mezo al mare
El bastimento se a sprofondà.

El bastimento fondo fondo
Mai più al mondo ritornerà

I miei capelli son rici e beli
L’acqua del mare li marcirà.

E le parole dei miei frateli
Son state quele che m’han tradì.

Canto dell’ Emigrante- Merica-Merica ( Inno degli Emigranti in Brasile)

Dall’ Italia noi siamo partiti
Siamo partiti col nostro onore
Trenta giorni di macchina a vapore
E in America noi siamo arrivà.

E là in Merica che siamo arrivati
Non abian trovato né palia né fieno
Abian dormito sul nudo tereno
Come le bestie abian riposà.

E l’America l’è lunga e l’è larga
E circondata da monti e da piani
E con l’industria dei nostri Italiani
Abian fondato paesi e città.

Gotardo

Eravamo in ventinove
Solo in sete noi siamo restà
E gli altri ventidue
Soto i colpi son restà.

Maledeto sia il Gotardo
L’ingegnere che l’à progetà
Una galeria sai lunga
Che non trovo mai la fin.

Poverine le vedovelle
Quanto piangere e sospirar
La passion dei lor mariti
Le va in chiesa per pregar.

Le se veste tute de nero
Le va in chiesa per pregar
Le sente l’organo suonare
Le muove i piedi per balar.

Nella sventura c’era spazio anche per un po’ d’ironia.

Dal 1970 in poi l’ avvio di una forte industrializzazione ed una migliore conduzione nell’ agricoltura portarono finalmente all’ occupazione completa della manodopera disponibile ed a un aumento impensabile del tenore di vita,il famoso miracolo economico, tant’è che molti emigrati temporanei rientrarono ed iniziarono flussi immigratori sempre più consistenti da altri paesi verso l’Italia. Ma dagli anni 2000 lo spettro dell’ emigrazione apparve nuovamente : giovani diplomati e laureati a spese dello stato italiano, dove un sistema retrogado e sclerotizzato non è in grado o non vuole impiegare perfino i più bravi, sono costretti ad emigrare in stati più organizzati e preveggenti, offrendo il loro sapere e capacità per le fortune degli altri. E mentre gli altri con la bravura e l’ingegno dei nostri migliori si arrichiscono, noi in Italia accogliamo gente senza qualifica o peggio, che lavorando spesso in nero,non pagano tasse, ci fanno una sleale concorrenza portandoci verso la disoccupazione ed una nuova povertà. Se questa non è pura stupidità!

A proposito : chi è il più bravo?

Nei test scolastici dell’ istruzione INVALSI, gli studenti veneti sono in cima alla classifica delle regioni italiane in Italiano e matematica, ma ogni anno agli esami di maturità i cervelloni con 100 e lode al Sud sono il doppio del Nord con il record della Calabria.
Evidentemente al Sud usano ancora un metro borbonico.

Alla Mostra del Cinema di Venezia ( proprio a Venezia! ) è stato presentato un “ film ?” del napoletano Francesco Patierno interpretato dal meridionale/ milanese Diego Abatantuono ( che prova fare il veneto !) “ Cose dell’ altro mondo” con l’unico intento di far sapere in giro ( a chi poi ? ) che nel Veneto e solo nel Veneto chissà perché, gli immigrati non sono accolti bene. Mancava per loro il tappeto rosso! La realtà è ben diversa ed eccetto qualche stupido o bugiardo senza vergogna, lo sanno tuttti che qui da noi gli immigrati hanno un’ accoglienza dignitosa sempre ché lavorino regolarmente e rispettino le nostre regole e tradizioni come succede in ogni paese. A chi non va bene può sempre andarsene. Ben diverso è il trattamento che ricevono in altre Regioni dove sono spesse volte sfruttati e se si ribellano anche fatti sparire. Ma su ciò si guardano bene di fare un film. E pensare che per una cazzata del genere, con la crisi nera che ci ritroviamo, un ministero” sbadato ” ha elargito vergognosamente un contributo di 1.300.000 Euro, soldi dei contribuenti veneti ed italiani sperperati.
Queste sì sono “ COSE DELL’ALTRO MONDO – COSE CHE FANNO SCHIFO !”